Il fatto quotidiano

O meglio, come fare al Mandrake un’intervista non scontata. Ricevo da Daniela (grazie infinite!!!) e volentieri pubblico qui quest’intervista per il compleanno, che purtroppo ho letto soltanto poco fa. In grassetto le domande. Buon divertimento a tutti!
PARLA PROIETTI
WHISKY E RASCHIO, 70 ANNI DA GIGI
di Malcom Pagani(Il Fatto Quotidiano)
La preghiera laica di Luigi Proietti è in bilico tra l’epitaffio e il manifesto esistenziale: “Signore preservami dai contenuti, proteggimi dal significato, ma fulminami senza pietà se cado nella tentazione del messaggio”. La curva della vita è entrata nel vicolo sinistro delle celebrazioni. Settanta anni da una settimana e un telefono nella tasca che continua a squillare in un albergo di Verbania in cui i tempi dalla tv lo costringono alle notti insonni: “Nun se dorme mai” e l’Inverno presenta il conto in anticipo. “Volevo far finta di niente. Poi è uscita un’agenzia e mi ha fregato. Gigi di qua, Gigi di là. L’età è una maledizione, l’anagrafe una iattura. Pur vittima di un evento insopportabile, mi sono consolato con l’affetto”. E ride, l’erede di Romano e Giovanna: “Due persone semplici, umili che ringrazierò sempre perché nonostante in casa non avessimo una lira, non mi hanno mai fatto sentire il figlio di un dio minore”   . E inclina il sopracciglio, spalanca il ghigno, ripercorre il passato da Fregoli (cantante, regista, attore, scopritore di talenti, direttore di teatri) rifuggendo qualunque appartenenza certa nella scia di un altro grande autodidatta. Quando a Pratolini dicevano ‘discendi dalla commedia dell’arte’ Vasco replicava: ‘Signori vi sbagliate, io discendo soltanto dalle scale di casa mia’. (qui me sa che il giornalista s’è sbajato manco poco, N.d. W.) Lo ossessionavano identificandolo di volta in volta nell’erede di qualcun altro e lui, caustico, rispondeva con le sue armi. Tutti dobbiamo qualcosa a chi ci ha preceduti, le influenze pesano, ma in fondo, ognuno di noi è geloso della propria autonomia.    La sua nasce nei night. Iniziavo alle nove di sera e cantavo fino alle cinque di mattina. Ottanta, novanta canzoni. Sudando, fumando, portando allo   stremo le corde vocali. Quando si spegnevano le luci, cercavo uno specchio. Solo per avere la certezza di riconoscermi.    L’epoca della gavetta. Facevo l’università, non avevo un soldo e abbracciando un microfono riuscivo a pagarmi gli studi.    Repertorio? Ha presente Ne me quitte pas di Jacques Brel?    Perle di pioggia, malintesi, amori. Ecco, la riscrivevo a modo mio. (inizia a intonare la voce roca, le pause, i tempi, come sempre, giusti) Nun me rompe er ca’, nun me rompe er ca’, mo m’hai rotto er cà, tu m’hai rotto er cà.    E il pubblico? Impazziva. Quello non era cabaret puro, ma una trovata, espediente, guizzo. Scherzi e goliardate che ancora oggi mi richiedono. Nella borsa, senza boe di salvezza, un teatrante non dovrebbe mai rimanere.    La valigia dell’attore e certi alberghi in cui come canta De Gregori, diventi un elemento del paesaggio. Ma a me, a differenza della canzone, il documento lo chiedono sempre, forse non si fidano, anzi sono io il primo a consegnarlo per evitare imbarazzi.    Non si annoia mai? Mi diverto ancora, anche se la stanchezza fisica si sente e la vigoria dei trent’anni è un rimpianto. Quello che facevo allora, e mi riferisco a tutto ma proprio a tutto, con quella frequenza infernale non si può più fare. (ride)    Il successo inatteso ha attraversato tutta la sua vita. Mi pare fosse il 1970. Modugno è indisponibile e mi propongono di lavorare temporaneamente su Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini.    Ruolo? Ademar, un cialtrone che propone rimedi miracolosi, gioca sulle paure popolari e passa immeritatamente da guaritore.    Attuale. Io ero molto dubbioso. Dissi ‘vengo alle prove, poi vediamo’, convinto che Modugno tornasse in tempo.    Invece? Non tornò e io scoprii cosa volesse dire popolarità. Davanti alle platee piene, mi sono sempre stupito. Negli anni ’70, convincere le persone ad andare a teatro era un atto di fideismo   .    Addirittura? Non c’erano le macchine pubblicitarie di oggi, fondamentale era il voce a voce. Le racconto una cosa.    Dica. A poche ore della prima di A me gli occhi please, credo fosse il ’76, ebbi uno scrupolo di coscienza. L’idea che il teatro Tenda, uno spazio enorme con duemila posti, fosse tutto per me, mi faceva star male.    Male come? Non dormivo la notte, avevo gli incubi, soffrivo alla sola ipotesi. Così andai dall’impresario.    Per dirgli? Di ridurre la platea a un terzo della capienza normale. A me, 500 posti occupati sembravano già una follia. Il Tenda era il più grande ambito della città.    E quello? Rifletteva pensieroso, quando a un tratto, in camerino entrò mia moglie. Il fiato spezzato, l’affanno, gli occhi lucidi: ‘Gigi è un trionfo, guarda fuori c’è una fila di chilometri’. Fino ad allora, escluso l’Adelchi di Gassman, un’onda popolare di quel genere non si era mai verificata.    Farli entrare, il primo passo. Poi bisognava intrattenerli. In A me gli occhi please, le scenografie quasi non      esistevano. C’era l’attore, cioè io e una cassa che definivo ‘il contenitore dei ricordi del mio futuro’. Fu un periodo di irripetibile vitalità ed energia, il pubblico avvertiva un’esigenza, noi la colmammo e andammo avanti con il tutto esaurito per mesi.    C’era stato Febbre da cavallo… Come dicevo? Whisky maschio senza raschio, teschio maschio senza rischio? Non mi ricordo più.    Lei era Bruno Fioretti, in arte Mandrake. Un disgraziato che diceva di fare l’attore e che per il demone delle corse all’ippodromo avrebbe venduto anche la madre.    Per strappare soldi a sua moglie, inventava di tutto.    Mi ricordo un monologo sull’inflazione e sul prezzo delle uova: ‘Nella misura in cui il prezzo delle uova ha toccato vertici da capogiro, fagocitando l’inflazione   secondo la logica alienante del consumismo’. Ricordi belli.    E poi Steno alla regia. In verità il film non ebbe un esito memorabile e venne riscoperto solo 15 anni dopo. Ho fatto anche altro però.    Tavernier, Altman. Ho mancato il mio preferito, Fellini. Con Federico ci volevamo bene, mi chiamava Gigiaccio. Mi dava consigli.    Cosa le insegnò? A essere semplici, diretti, sereni soprattutto. Sovrastruttura, per lui, era una parolaccia. Nella levità e nella leggerezza, Fellini scorgeva la salvezza.    Seguì il precetto? Lo presi in parola e portai a teatro Leggero, leggero, che era l’esatto contrario di un inno alla superficialità. Riuscire a comunicare qualsiasi cosa, senza distinzioni tra l’alto e il basso.    Una divisione che l’ha fatta sempre arrabbiare. Esiste solo il bello, il resto è ipocrisia o peggio, provincialismo. La cultura è cultura, ma nell’arte, come dicono a Roma, nun se butta via niente. A chi mi proponeva come legge la distinzione filosofica tra cinema e tv ho sempre risposto duramente. Vuole un esempio?    Siamo qui. Urlavo verità sensate. Suggerivo che se invece di rifugiarsi sull’Aventino delle idee alte, i cinefili avessero provato a fare della buona televisione, forse tante produzioni di basso livello degli ultimi 30 anni non avrebbero avuto cittadinanza.      Invece? Ritardi, incomprensione generale del fenomeno, nessuna lungimiranza. Qualsiasi immagine passasse sul piccolo schermo veniva criticata.    Pregiudizi? La tv è solo un oggetto, bisogna vedere che uso se ne fa e intuire che sarebbe diventata preminente, francamente, non era un’impresa da oracoli.    Non se ne vede di straordinaria, in verità. In tempi di crisi come questi, osservare prodotti modesti accade più frequentemente.    Che epoca è? Una volta, rispetto ai grandi movimenti di massa e alla disillusione dalla politica si parlava   di riflusso. (cambia voce, recita, arrota il romanesco, ndr) ‘Mbè, ‘sto riflusso ancora continua, nun è mai defluito (ride).    Le sue battute memorabili? Lo sguardo piacionico, il Pietro Ammicca (ride ancora) Alcune erano obbligate dal copione, altre frutto di un lampo del momento. Un bravo regista lascia sempre un luogo per far esprimere la creatività al suo attore. E qualcuno in gamba, mi creda, l’ho incontrato.    Qualcuno l’accusa di essere romanocentrico… No, non è vero, io vorrei sforzarmi e amo tutti i dialetti, però poi la battuta nel mio idioma me piace e non mi trovo triviale. Vuole una lezione?      Prego. Ogni espressione dialettale nasce dal volgo e le polemiche sull’uso della lingua, nell’Italia di oggi, sono usate dalla Lega per qualche desolante alterco dagli evidenti ritorni elettorali.    Una volta invece? Ma scherza? Il campanile era l’essenza dell’Italia. Nord contro Sud, in chiave comica, anche simpaticamente competitiva, ma senza fratture.    Sicuro? Non parlo degli emigranti calabresi che a Torino non riuscivano neanche ad affittare una stanza perché trovavano cartelli ostili, ma di trasmissioni come Campanile sera.      Ha superato il trauma dell’estromissione dal Brancaccio? Ci ho pensato per un tempo infinito, doloroso anche. Presi il teatro agonizzante e lo riportai in alto. Non ho mai cercato un impiego in vita mia. Vado dove mi vogliono e al Silvano Toti, le assicuro, sto benissimo.    Finalmente ha potuto mettere in scena Shakespeare. Non in prima persona, ma la soddisfazione resta enorme.    Per chi si sbatte ancora, Proietti? Per lo spettatore che guarda l’orologio e non vede l’ora di uscire e fuggire via. A volte recito solo per lui.      Un cruccio? La cosa peggiore che possa capitare è trovare collaboratori e colleghi tristi. Il nostro è un gioco rischioso. L’unico strumento a disposizione siamo noi.    Il suo amico Gassman conobbe la depressione. Negare che esistano momenti bassi sarebbe da idioti. Non si può essere entusiasti a tutti i costi. Io odio il buonismo, ma anche il cattivismo.    Il cattivismo? Tutto quello che si fa per non essere buonisti. Una maschera. L’equilibrio è necessario. Se uno vuole lo segue, sennò fa come je pare.

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